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Davide Vizzini
Che cos'è il montaggio cinematografico?
09 March 2023
Webinar
Cinema

Abbiamo intervistato Davide Vizzini, montatore di origini Padovane che ha partecipato lo scorso marzo ad un incontro di orientamento per le scuole superiori. Gli abbiamo chiesto di raccontarci cosa significa occuparsi di montaggio.

Ciao Davide, tu nella vita ti occupi di cinema, un settore molto ampio, che ruolo hai nella filiera?

Io faccio il montatore di audiovisivi, nello specifico per il cinema e la televisione, dalla fiction ai documentari. Il cinema è la mia vita sia a livello professionale, perchè mi da il pane, sia perché è la mia passione, una passione che si è evoluta nel tempo: venendo dalla provincia e andando poi a Roma, ho visto e capito delle cose che hanno ulteriormente nutrito il mio entusiasmo per l'audiovisivo e per il cinema, l’hanno indirizzato verso uno specifico ambito professionale che è quello con cui io adesso campo e cioè il montaggio audiovisivo.

Approfondendo un po’ di più, in cosa consiste il tuo lavoro, qual è il valore aggiunto del montaggio su una produzione audio-visiva?

Montare consiste nel mettere insieme pezzi di un discorso, mettere insieme immagini per raccontare una storia, una storia che è pregressa al mio lavoro il più delle volte. Io mi inserisco in una filiera professionale molto strutturata, metto in forma ciò che qualcuno prima di me ha girato in fase di ripresa e che qualcun'altro, ancora prima, ha scritto in fase di sceneggiatura.

Faccio parte di una filiera. Creo un discorso per immagini, prendo un intervallo, dall’inizio alla fine di una scena, lo appiccico a un pezzo di un'altra scena e scena più scena fa un discorso “il cane mangia l’osso, il cane corre nel parco”. Assemblo le immagini tra di loro e attribuisco un senso ad ogni singolo taglio che faccio, ad ogni singolo accostamento di immagini, perché un’immagine da sola vuol dire una cosa, un’immagine più un'immagine può voler dirne un’altra. Metto insieme i pezzi.

Quindi, per specificare ulteriormente, ti vengono mandati più punti di vista di una stessa scena. Chiaramente il regista ha sviluppato la scena secondo un’idea precisa, ma successivamente sei tu a mettere il tuo contributo pensando come mettere insieme i diversi punti di vista, è corretto?

Assolutamente. Io ho un puzzle di parole da gestire, partendo dal fatto che esiste un’idea pregressa che è la sceneggiatura, che dà un senso a tutta la storia che noi andiamo a raccontare. Lo sceneggiatore ha scritto “succede questo fatto e questo dice questo e quell’altro dice quell’altro”, il regista in una sorta di visione artistica, potremmo dire cubista, scompone questo discorso semplice e mi da’ prospettive. Quindi cosa succede? Che io mi trovo a montare un puzzle con l'obiettivo di ottenere la pagina della sceneggiatura, ma il risultato dipende dalla mia ispirazione, ovviamente condivisa con il regista.

Ho quindi infinite possibilità combinatorie per ottenere un medesimo risultato volta per volta. Se io in un mondo ideale vi dovessi dare da montare un dialogo tra A e B nessuno otterrà lo stesso risultato ma tutti monteranno in maniera per cui A e B si diranno le cose che si devono dire.

Si tratta di scegliere, tra infinite possibilità, i punti dove effettuare un taglio per dare un certo tipo di emozione alla scena che devo montare.

Come montatore hai un margine creativo?

E’ una bella domanda. Il contributo artistico del montatore è riconosciuto, ho la libertà di dare la mia interpretazione di ciò che ricevo come materiale da assemblare perché sono uno spettatore vergine e uno dei primi spettatori di girato grezzo.

Anche perché in questa mia verginità di sguardo sono capace di avere un’idea ulteriore, diversa da quella che è passata nella testa di chi ha scritto la storia che io vado a montare e di chi ha fatto le riprese per raccontare quella storia.

Se io poi ho due, tre punti di vista su una scena ecco che il mio lavoro amplifica il senso, dando una mia lettura di quel passaggio, di una determinata azione.

Ci sono contesti più vincolanti, un conto è la narrazione cinematografica che ha un margine di creatività e di libertà che viene dato dal fatto che le idee si costruiscono con le persone che danno una propria interpretazione, nel caso della comunicazione di tipo pubblicitario ci sono un po più di paletti.

Nell’ambito pubblicitario c'è qualcuno sopra di te che guarda le cose con uno sguardo creativo molto determinato. Dobbiamo vendere una macchina? Si deve vedere bene la macchina, si devono vedere le sue specifiche caratteristiche, è un’altra filosofia. Nel cinema o nella narrazione in generale i paletti possono essere i tempi: il film deve avere una certa durata e deve essere efficace, magari alcune cose risultano superflue, bisogna fare un ragionamento di essenzialità, di efficacia.

Qual è stato il percorso di formazione che ti ha portato a decidere di dedicarti al montaggio?

Io ho cominciato facendo giurisprudenza, che non c'entra niente, poi un giorno, portato da un amico, mi sono trovato ad andare alla proiezione di alcuni film tra cui uno di Michelangelo Antonioni. Durante questa serata c’era questa persona che analizzava dei film e io, che comunque guardavo già molto cinema, ho visto le idee dietro l’inquadratura, quindi mi è stata data una prospettiva: quello che tu vedi non è solo quello che stai vedendo ma è l’elaborazione di un’idea, è il frutto di un grosso ragionamento che c’è dietro ogni singola scelta di inquadratura da parte del regista e di chi in fase di montaggio dopo di lui ha assemblato le immagini.

Da lì è nato l’interesse per la storia del cinema, che mi ha portato a spostarmi a lettere dove mi sono laureato con un focus particolare sulla storia della critica cinematografica.

Mentre frequentavo l’università guardavo un sacco di film, di cose che mi interessavano, ho cominciato a chiedermi cosa significasse provare a farle quelle cose.

Poi il contesto aiuta molto, in quegli anni a Padova c’era un sottobosco molto florido di persone che creavano i propri progetti: c’erano persone che raccontavano storie di immigrati, che raccontavano storie di comunità ROM, gente che faceva cortometraggi amatoriali, dalle cose più stupide alle cose più serie. In questo brodo primordiale ho cominciato a chiedere al mio maestro, che era il professore di storia della critica del cinema che mi ha formato, si chiama Gian Piero Brunetta, e a un altro maestro che è un regista che stava lavorando nel neo-nato DAMS che è Mario Brenta e mi hanno detto “Devi andare in una scuola di cinema, una scuola che ti faccia toccare con mano la materia e te la faccia studiare non soltanto da un punto di vista analitico come poteva fare l’università ma te la faccia studiare dal punto di vista del tentativo, della prova, dell’esperimento”.

E quindi ho fatto domanda per entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia cioè la scuola nazionale di cinema di Roma. Sono andato per imparare il montaggio, con questo maestro che si chiama Roberto Perpignani, un grande maestro del cinema del passato.

Mi permetto di dire, non bisogna per forza andare a Roma alla scuola nazionale di cinema, però la cosa bella è stata entrare in un contesto dove le persone avevano il mio stesso obiettivo, avevano la mia stessa passione, volevamo tutti finire nell'industria, se così la possiamo chiamarla nel nostro paese.

Oggi comunque ci sono molte scuole, in giro per tutta Italia. Bisogna capire chi sono i professori che insegnano in queste scuole, perché ci sono grandi professionisti anche in accademie che non sono nelle capitali del cinema.

Anche se credo fortemente nel valore della scuola, specie se è così comunitaria come quella che ho avuto la fortuna di frequentare io, non sottovalutiamo la pratica: chiedere, bussare alle porte di qualcuno che ci prenda “a bottega” per vedere come si fa il mestiere.

Ti sei trasferito a Roma per trovare più opportunità?

La mia vita è a Roma da quando ho finito la scuola di cinema. Padova è stato un luogo di formazione indispensabile, però anche questa è una cosa che va accettata, c’è un grande fermento nella nostra regione, il Veneto, ci sono sicuramente delle possibilità di lavorare in questo settore, però diciamo che se si vogliono fare determinate cose ci si deve staccare dalla propria città e regione di origine e girare, perchè fa bene muoversi, è un’esperienza che va fatta.

Qual è la soddisfazione più grande e la difficoltà più grande del tuo lavoro?

La soddisfazione più grande è riuscire ad avere un’idea che rimane soltanto tua, non per narcisismo, ma perché può risolvere qualcosa che regista, sceneggiatore o qualcun altro intorno a te non ha visto, quindi la soddisfazione è essere quello che risolve il problema, che dice "arrivano i nostri”, la soddisfazione di dare un contributo puro ad un atto creativo.

La difficoltà più grande è far passare la tua idea. Però è anche vero che cercare una soluzione che funzioni è come risolvere un problema di matematica, no? Perché è vero che questa non è una scienza esatta, ci mancherebbe altro, però il processo per cui si scopre la soluzione al problema è esaltante e quando arrivi alla soluzione sei nuovamente soddisfatto.

Quando guardi un film, riesci ancora a godere nel vederlo? Come prima che iniziassi la tua carriera nel cinema.

E’ una domanda interessante. Io personalmente vedo tutto ancora come se fosse la prima volta, cioè, se una cosa è fatta bene, perchè quello è il nodo che mette in gioco la tua professionalità, ci sto ancora dentro. Quando una cosa è fatta molto male non metto nemmeno in gioco la mia competenza, è solo fatto male. Ma la cosa più interessante per me è vedere una cosa fatta bene, mi alzo sulla sedia e dico "Ammazza che figo questo taglio di montaggio, quest’idea”. Magari lo sperimento anch’io e diventa una tecnica che poi utilizzo quando lavoro, tanto lo dice pure Martin Scorsese che bisogna copiare, l’importante è copiare bene.

Nel cinema non ci si inventa niente, è già stato fatto tutto all’inizio perché era talmente eccitante lavorare con le immagini in movimento che è già stato buttato tutto sul piatto all'inizio, quello che noi abbiamo fatto è stato raffinare la tecnica; ma è come la tradizione orale del racconto: qualunque racconto si può ricondurre a schemi che vengono utilizzati da migliaia di anni.

Che consiglio daresti?

Se pensate di fare questo lavoro, cercate di capire se avete davvero la passione, non tanto perchè senza non si possa lavorare, si può contemplare qualunque mestiere nella vita, però devo dire che a me viene meglio, mettiamola così.

Senza passione si fanno le cose lo stesso, però si rischia di farle con lo sguardo all’orologio, con la testa sintonizzata sull’idea che si lavora per guadagnare soltanto i quattro soldi che servono e poi il mondo fuori non c'è più. Questo non è un mestiere a grado zero di partecipazione, senza partecipazione la creatività non si esprime.

I ragazzi oggi sono alfabetizzati da subito e profondamente connessi con il mondo delle immagini, e il prodotto audio-visivo può risultare qualcosa di quotidiano e poco emozionante. Però io credo che quando qualcuno si accorge che tra tutto quello che ha visto fin da quando era bambino, esistono dei prodotti che si staccano dalla banalità e che sono delle magie, delle cose che ci emozionano, lì forse si può trovare il germe della passione. Quindi a quel punto, consiglio di assecondarla.



L'incontro in questione è il risultato di un progetto di orientamento costruito in esclusiva con gli istituti scolastici di Verona.