Quali sono i passaggi fondamentali per costruire una rassegna cinematografica? Lo abbiamo chiesto a Ginevra e Giovanna del Bridge film festival, una rassegna tutta veronese che quest'anno ha compiuto 10 anni.
Siamo curiosi di sapere cos’è Bridge Film Festival e come nasce.
Grazie per l’invito, è un onore che dopo 10 anni la nostra passione venga messa nelle mani della collettività. Il Bridge Film Festival nasce come festival di cinema-documentario, poi in realtà la programmazione ha preso pieghe più ampie: in generale, portiamo sullo schermo storie reali, quindi fiction e film di genere sono esclusi dalla selezione dei lungometraggi. Oggi esiste una cultura del documentario, ma dieci anni fa, soprattutto a Verona, non era così. E dal punto di vista cinematografico non c’era molto… Schermi d’amore era appena stato chiuso. Erano rimasti il Festival del Cinema Africano, meritevolissimo, come anche il Film Festival della Lessinia. Noi però avevamo questo desiderio di ricercare nel cinema indipendente europeo e con vari amici, tutti appassionati di cinema e tornati da Erasmus e giri per il mondo, abbiamo fatto un excel con la lista dei nostri film preferiti. Poi abbiamo organizzato un cineforum per vederli. È partito tutto da lì.
E tu, Ginevra?
Io ricordo che avevo messo film come Taxidermia, un film ungherese… non certo film leggerini, ecco. Prima avevo organizzato per due anni un festival di cortometraggi a Mannheim in Germania e lì avevo acquisito un po’ di conoscenze e consapevolezze necessarie su come si organizza un evento di cinema.
Com’era il contesto culturale di Verona al tempo?
C’era un certo fermento di persone che facevano molta fatica a trovare un lavoro nel contesto culturale e l’amministrazione era un ostacolo alle attività come la nostra. Siamo partiti senza chiedere permessi, senza grandi pensieri, con un proiettore e uno schermo prestato da Interzona, che in quel momento stava per chiudere definitivamente lo spazio agli Ex magazzini generali. In quel periodo stavano nascendo un sacco di associazioni, c’era il Path Festival, il Lessinia Psych Fest, un sacco di eventi. E anche noi nel nostro piccolo, dal punto di vista del cinema, grazie a Balera Veronetta che gestiva all’epoca i giardini di Palazzo Bocca Trezza, abbiamo organizzato quattro proiezioni, una alla settimana, sempre nel mese di luglio.
Immagino che i primi eventi siano stati un successo, se poi avete continuato.
Alle prime proiezioni sono arrivate quasi 500 persone, perché era gratuito, all’aperto e facevamo vedere documentari che non passavano nei circuiti, per esempio Io sto con la sposa, Bibione bye bye one, The act of killing che parla del genocidio in Indonesia, Electro Moscow sulla scena elettronica a Mosca. Non ci credevamo: avevamo organizzato in cinque minuti la grafica con Giacomo Bagnara - che tra l’altro è diventato un super illustratore e aveva preso a cuore la causa. Abbiamo coinvolto tanti artisti e professionisti, chi per l'illustrazione, chi per la sigla, chi per i cocktail e il cibo a tema con la proiezione: nulla era lasciato al caso anche se l’organizzazione era primordiale, diciamo soprattutto che il contenuto c’era. Grazie a chi ha comprato una birra o un gadget abbiamo messo da parte i primi soldi e ci siamo comprati il proiettore e lo schermo. Da quel momento momento abbiamo iniziato a fare proiezioni in ogni dove, anche oltre il festival.
Quando?
Abbiamo iniziato a fare rete con varie associazioni, che ci chiamavano per organizzare delle proiezioni. Siamo andati in fiera a proiettare film legati all’architettura per la rassegna “Abitare il tempo”, con l’Università, sul cibo, insieme ad altre associazioni di cinema. Insomma, a seconda dell’evento ci veniva dato magari un contributo e quello ci aiutava per poi avere una piccola somma da parte ed essere autonomi nell’organizzazione dell festival di luglio.
Come avete deciso di allestire una programmazione così in una Verona che era un deserto culturale?
Una volta mi è capitato anche che chiamasse la questura… ci controllavano molto, anche se evidentemente non stavamo facendo niente di male, solo film, finivamo alle 11 e mezza, ma si sa che è più potente un film fatto bene, che racconta qualcosa, rispetto a una festa con risotto e birra. Il nostro obiettivo era anche avvicinare il pubblico giovane a questo tipo di film, perché per i giovanissimi all’epoca non c’era molto: le persone si dividevano abbastanza nettamente tra chi faceva l’aperitivo in città e chi frequentava Veronetta. Adesso sta cambiando questa tendenza e io sono felicissima, ma probabilmente associazioni come la nostra e altre di quel periodo hanno aiutato. In un posto all’aperto, sul fiume, con l’aperitivo dell’Archivio, un concerto che anticipa sempre la proiezione, una performance di danza si è più predisposti poi a guardare un film.
Qual è secondo te il fattore più importante per mettere in piedi una realtà del genere? Le persone, l’idea di partenza, la passione o gli spazi?
Questa è una bellissima domanda. Sapendo che potevi farmi una domanda simile, ci ho riflettuto tantissimo. Penso che il momento storico sia sicuramente importante, perché queste cose funzionano se si intercetta una mancanza, il bisogno insoddisfatto di un contenuto, di un evento diverso da quello che già c’è. Ci sono molte associazioni che scrivono i progetti cuciti sulle richieste dei bandi in modo da poter arrivare ai finanziamenti (benissimo che vengano dati alla cultura), ma poi agli eventi spesso ci trovi poche persone. Questo perché il reale bisogno di quel progetto non c’è. Prima forse ci si può buttare senza avere le spalle coperte e vedere se la cosa funziona: bisogna un po’ rischiare.
Voi avete fatto così?
All’inizio i film li pagavamo noi. Eravamo in dieci, ognuno dava un contributo, perché ci sono i diritti da pagare. Ci tengo a sottolineare che siamo tutti volontari, e tutti facciamo tutto o abbiamo fatto tutto in passato. Puntiamo a poter riconoscere il lavoro di ciascuno, ma al momento chi collabora con noi sa com’è la situazione, il bilancio viene condiviso. Chiaramente paghiamo gli artisti che fanno le performance, gli autori dei film, i liberi professionisti che vengono ai talk e ci supportano. Ma i volontari e le persone che lavorano al Bridge sono fondamentali. La seconda cosa fondamentale dunque è il gruppo. Un anno e mezzo fa io ho avuto una bambina, le altre persone reputavano importante questo festival e il progetto è stato portato avanti comunque.
In quanti volontari siete ad organizzare il festival?
Durante il festival una quarantina, ma nel periodo di progettazione meno ed è un po’ più difficile, perché ci sono tante cose a cui pensare (distribuzione, permessi, programmazione...).
Com’è strutturato?
Facciamo 4 serate. Mercoledì, giovedì e venerdì abbiamo due mediometraggi o un lungo dipende dalla durata, anticipati da uno o due corti. Il sabato sono tutti corti. Poi ogni sera ci sono una serie di eventi collaterali che includono arte, musica, danza, rassegne e progetti ibridi o sperimentali.
Come avviene la selezione dei film?
Selezioniamo i film in vari modi. Innanzitutto intorno a febbraio, apriamo la call for entries, per chiunque voglia candidare il suo lavoro e visioniamo i film che arrivano in un gruppo di persone. Poi cerchiamo nei festival secondo noi più interessanti a livello internazionale, come la Berlinale, il festival di Rotterdam, il festival del documentario di Amsterdam o il festival del cortometraggio di Clermont-Ferrand. Poi, e questa è una cosa molto importante, ci interessa molto valorizzare i giovani talenti locali, quindi teniamo sempre gli occhi aperti su cosa succede a Verona, nel nostro territorio, sulle giovani proposte. In generale ogni anno c’è un tema che funziona come filo conduttore dell’edizione e ci aiuta nella scelta.
Non cercate sponsorizzazioni perché vi è capitato di trovare realtà che vi chiedessero qualcosa in cambio o per una scelta iniziale?
Era il principio iniziale di un gruppo di giovani che voleva essere indipendente, non abbiamo mai pensato di chiedere a realtà che non ci convincevano. Poi ci siamo rivolti al Comune. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto con l’assessora Briani che ci ha sostenuto: ci ha concesso il patrocinio e poi anche un piccolo finanziamento. La cosa è proseguita con l’assessora Ugolini. Nel nostro piccolo, ci sembra giusto che l’amministrazione incentivi le realtà indipendenti e non solo l’Arena o il Teatro Romano. Poi non è scontato che un progetto nuovo debba essere subito finanziato, se io fossi dall’altra parte vorrei vedere un minimo storico.
E per quanto riguarda gli sponsor?
Abbiamo cominciato a cercare sponsor da quest’anno e per farlo abbiamo cercato realtà e aziende che ci sembrano affini ai nostri valori. Purtroppo avere degli sponsor può essere un’arma a doppio taglio, e quello che ci interessa è restare indipendenti nella nostra programmazione. Poi non ci interessa diventare il festival di Venezia, ma nemmeno implodere. Quindi si tratta di un equilibrio fra continuare a fare sempre meglio una cosa in cui crediamo e cercare di mantenere quella spinta dal basso che caratterizza il festival.
Quindi quale può essere un consiglio per chi vuole fare una cosa simile alla vostra?
Per noi ha funzionato mettersi in gioco sempre, provarci con raziocinio, con le persone giuste e non da soli perché da soli queste cose non funzionano. Ci dev’essere una rete che funziona, una tribù, gente che ci crede, e soprattutto il coraggio di provare a vedere se sta in piedi l’idea. Le persone deve avere bisogno di quella cosa, dev’esserci fame di quell’idea, deve esserci un vuoto.
Foto di Carlotta Canovi, Chiara Fogliatti e Riccardo Cellini